L’ALGORITMO SOVRANO.
METAMORFOSI IDENTITARIE E RISCHI TOTALITARI NELLA SOCIETÀ ARTIFICIALE
Renato Curcio
2018
Nel mondo virtuale Tutto può essere finto. Viviamo in una società accelerata da molti artifici. La successione sempre più veloce e frammentata delle apparenze quotidiane, iper-stimolata da immagini scioccanti, slogan terribili, cinguettii robotici, post virali, pubblicità d’ogni tipo esposte o nascoste, finisce con l’indurre effetti multipli di lucido stordimento. Percezioni alterate. Stati di coscienza permanentemente modificati. Lo stupefacente si è fatto misura della comunicazione ordinaria e tutti noi, pur sapendolo in qualche vago modo, soggiacciamo comunque al suo effetto e ne diventiamo dipendenti. Questo contesto, incessantemente riprodotto dall’instancabile macchina algoritmica, ormai ben oltre la temporalità umana ancorata alle periodizzazioni biologiche della veglia e del sonno, ha per fonte gratuita e paradossale proprio la nostra energia comunicativa. La parte attiva e produttiva, a ben vedere, siamo proprio noi, gli utilizzatori. E lo siamo, in parte, perché costretti dalle nuove configurazioni della sopravvivenza nella società artificiale; per non finire al margine o esclusi. In parte – forse più rilevante ancora – perché affascinati dalle mitologie e dagli effetti speciali mediante cui i possessori del capitale algoritmico organizzano e perseguono la perpetuazione del loro dominio e della loro egemonia. Siamo noi che generiamo la materia prima – le tracce e i dati – della loro economia. Siamo noi che, contro i nostri stessi e più essenziali interessi, rendiamo effettiva la loro capacità d’indurre le nuove forme storiche del loro potere e della nostra sudditanza.
Il momento non è affatto ordinario. Per la prima volta nella storia della nostra specie, a seguito dell’espansione rapida e pervasiva delle tecnologie di intermediazione digitale, l’esperienza umana non si compie più soltanto o in prevalenza nello spazio-tempo dei corpi in relazione ma si proietta anche e simultaneamente in uno spazio-tempo virtuale. Siamo investiti da due processi asimmetrici regolati da logiche diverse che c’impongono, volenti o nolenti, una dissociazione identitaria radicale e permanente, una dissociazione che, comunque venga soggettivamente interpretata e gestita, non è affatto padroneggiata e per questo viene ampiamente sfruttata.
Questa nuova e più complessa situazione contestuale e identitaria presenta delle differenze radicali rispetto alle pratiche che fino a pochi” anni fa eravamo abituati a compiere nella vita reale. Abitudini e ritualità consolidate fin dai tempi remoti sono State travolte. Nelle nuove condizioni infatti ci troviamo a dover affrontare una formazione sociale più complessa e soprattutto caratterizzata dalla compenetrazione intermittente delle esperienze relazionali in presenza e di quelle in connessione. Voglio dire che in quanto umani, l’ibridazione sempre più ampia con dispositivi digitali in tutti gli ambiti della nostra esperienza – apprendimento comunicazione, lavoro, consumo, divertimento, ecc. – e la sua implicazione simbiotica, ci inducono a oscillare, con frequenza crescente, tra i due contesti e quindi a vivere in modo simultaneo esperienze dissimili. Se nei contesti relazionali gli scambi comunicativi restano “faccia-a-faccia”, in quelli online dominano le connessioni tra alias e i corpi “svaniscono” o meglio subiscono una risignificazione antropologica dall’incerto destino. Nel regno delle connessioni, avatar o alias li sostituiscono. D’altra parte, la traiettoria umana non conosce tragitti reversibili e il “ritorno” a un solo contesto – quello dominato dagli scambi faccia-a-faccia – in una prospettiva di specie è ormai inimmaginabile. E anche il prossimo futuro, per nostra fortuna, benché una valanga di proiezioni precettive o distopiche ce lo dipingano ora fosco come una catastrofe imminente, ora smart come l’ultimo gadget della Apple, resta, a loro gran dispetto, inattingibile. Le proiezioni predittive, nonostante le loro supponenti ambizioni non sono in grado di varcare i suoi cancelli. Di una cosa però dobbiamo prendere atto: in gran parte del pianeta, non adeguarsi al passo veloce delle tecnologie digitali non viene più neppure “concesso”.
I contesti obbliganti s’infittiscono e un gran numero di operazioni necessarie alla semplice sopravvivenza ha già fatto trasloco nel virtuale, mentre altre sono in lista d’attesa.
Naturalmente questo è fonte di molte difficoltà di adattamento fino a oggi sconosciute, e di inedite dissonanze identitarie perché nelle due dimensioni “tempo”, “spazio” e “velocità” non si assomigliano affatto e anzi differiscono qualitativamente dando luogo a vissuti spaesanti per i quali – qualunque sia la classe di età – non siamo ancora sufficientemente “addomesticati” e dunque adeguatamente preparati. Così, mentre tutto ciò c’impone urgenti trasformazioni sociali, culturali e psicologiche nel modo di concepire e organizzare gli apparati istituzionali e la vita quotidiana, ognuno di noi resta esposto a molti rischi per la maggior parte minimizzati, mimetizzati e impercepiti. Il più estremo dei quali, come già si osserva, è l’affievolimento della vita di relazione a beneficio di quella in connessione, con l’inevitabile conseguenza di una usura progressiva dei legami di specie spinta fino allo sbriciolamento degli spazi residui di sociabilità.
Per inoltrarci in questo scenario turbolento porteremo anzitutto l’attenzione su quella frontiera in cui i principali dispositivi digitali, esercitando pressioni sulle nostre più consuete esperienze relazionali, inducono evidenti torsioni identitarie; torsioni che ci proiettano nel vivo malessere di ma mutazione antropologica in pieno svolgimento. Anche qui, come abbiamo fatto in esplorazioni precedenti, ci serviremo di alcune narrazioni d’esperienza raccolte in diversi cantieri socio-analitici e delle riflessioni che esse hanno suscitato in due laboratori svolti tra gennaio e aprile del 2018 a Roma e a Milano. Si tratterà naturalmente di una esplorazione incompiuta, come del resto è incompiuta ogni impresa umana. Incompiuta ma aperta ai
confronti che questa sua restituzione sociale riuscirà a suscitare. Questa del resto è una buona via anche per misurarne i limiti e per immaginare, nel vivo di una effettiva dialettica sociale, ulteriori e più ampie prospettive.