Contributi del collettivo antipsichiatrico “Strappi” alla street rave di Bologna del 17 dicembre contro il decreto antirave “SMASH REPRESSION”
Martedì 13/12 con un maxi intervento di polizia è stata sgomberata l’occupazione di via Stalingrado 31. Un’occupazione che come soggettività in lotta contro il carcere, la psichiatria e la società che li producono, abbiamo profondamente sostenuto, consapevoli della sempre maggiore necessità di spazi di incontro liberi dal disciplinamento istituzionale. Un’occupazione durata solo poche settimane ma che a molti di noi sono sembrati mesi per l’intensità e la qualità delle interazioni che si sono sviluppate e che ancora ci scaldano il cuore.
La violenza con cui in ogni città si sta annientando qualsiasi spazio di libertà non ci vedrà passive!
Siamo qui per dire che intendiamo opporci con ogni mezzo ad un mondo che ci vuole sempre più addomesticate e sottomesse. Vogliamo essere sabbia negli ingranaggi del potere!
Ci rivendichiamo di sentirci disadattate all’interno di questo modello di sviluppo insensato e irrazionale. La loro “normalità” ci fa schifo!
A colpi di riqualificazione, decoro e repressione, lungo le strade in ogni città vediamo rastrellamenti quotidiani abbattersi sulle fasce più marginalizzate della società. E’ questa la loro ‘normalità’!
Il taser viene sempre più legittimato contro i poveri e chi vive un’esistenza fuori dagli schemi normati imposti dalla società.
Assistiamo all’uso sempre più frequente e capillare del daspo urbano per allontanare persone “sgradite”, e della manipolabilissima categoria di “pericolosità sociale” di derivazione psichiatrica e fascista per reprimere il conflitto e contenere/sedare diseguaglianze e oppressioni.
Vediamo continuamente puntare il dito contro la “malamovida”, neologismo che si vuole contrapposto a “buona movida”, cioè a quella socialità che rientra perfettamente negli spazi e nei tempi del consumo.
Anche l’infanzia è nel mirino: attraverso la costruzione mediatica del “bullo” e della “baby gang”, giovani e adolescenti sono continuamente trattati e rappresentati come un problema di ordine pubblico da reprimere mentre rimangono intatti quei modelli che il sistema stesso riproduce ed esalta, pesci grandi che mangiano pesci piccoli all’interno di una realtà dove solo chi ha soldi e potere è preso in considerazione, e chi non accetta di essere un cavallino da corsa non è nessuno.
In nome delle bandiere del decoro e del degrado assistiamo alla costruzione di sempre nuovi “mostri” su cui scaricare insicurezza e timori per fomentare tutte quelle paure che possono essere strumentalizzate in funzione di consenso: l’obbiettivo è spezzare qualsiasi possibilità di solidarietà e impedire qualsivoglia forma di messa in discussione del presente. Una “sicurezza” sempre più “preventiva”, volta ad asfaltare tutti gli spazi di fiducia, libertà, relazione, intersezione, prossimità e solidarietà dal basso.
La psichiatria è pronta a raccogliere i cortocircuiti di queste oppressioni e a colonizzare con nuovo slancio il quotidiano e l’individuo: la platea di “difetti” e “tare” da “curare” è destinata ad aumentare proporzionalmente allo sfruttamento e all’oggettivazione che attraversano sempre più infanzia ed età adulta. L’isolamento e il disciplinamento esasperato di ogni aspetto della vita, l’insicurezza legata al presente e al futuro, la vede infatti in prima fila nell’individuazione di nuovi “disturbi” e “terapie” per “contenere” con nuove diagnosi e nomenclature le “ansie”, legato a rabbia, paura e frustrazione in crescente aumento.
Non vogliono che stiamo bene, vogliono che stiamo buone!
Conosciamo psichiatria e polizia, conosciamo le loro “cure” e i loro trattamenti. Riappropriamoci della nostra rabbia, della nostra gioia! Vogliamo essere liberx di ballare e di esplodere con tutta la nostra vitalità
Restituiamo al mittente un briciolo di quella frustrazione che ci è impostata ogni giorno all’interno di una vita che non ci appartiene e che vorremmo radicalmente diversa.
Rompiamo i ruoli imposti! Riprendiamoci il tempo, lo spazio, riprendiamoci le strade, riprendiamoci il presente!
Siamo matte, schifose, balorde, tossiche, criminali, feccia!
Siamo l’anomalia.
Quando c’è un’anomalia del grande quadro capitalistico, la identificano, la etichettano, la stigmatizzano, la demonizzano finché non diventa identitaria, finché non viene allontanata, ingabbiata, ricoverata, anestetizzata, sterminata.
Così agisce la repressione. Agisce con violenza, o in maniera più silenziosa facendo sì che l’autodeterminazione diventi una diagnosi e il libero arbitrio diventi il rispetto indiscutibile delle regole.
Siamo strane e quindi diventa un dovere reprimerci. Sgomberano spazi in cui le persone hanno la possibilità di parlare del loro disagio senza dover incorrere in un iter burocratico e ospedaliero fatto di soldi da spendere, farmaci da prendere, sguardi da scansare, cicatrici difficili da guarire. Creano leggi che impediscono il divertimento autogestito senza fini produttivi o lucro, perchè la socialità si può fare sì ma come da normativa. Noi gente allegra abbiamo bisogno di ballare, urlare, ridere e giocare, con la nostra libertà, stiamo male se ciò non avviene, tutti stanno male, tutti. Se il controllo avviene anche sul tempo libero, in un mondo che monetizza il valore del tempo, ecco che la repressione funziona, ed ecco che ci ammaliamo. La malattia è un segnale che qualcosa non va e tutto conduce a qualcosa che non va dentro di noi, malate da sempre. La malattia è e deve essere un segnale che qualcosa non va là fuori. Che la responsabilità non è sempre nostra, dei nostri sensi di colpa cristiani, dei nostri errori. La responsabilità è politica (porco dio).
Rinchiudono compagni, chiudono le loro bocche, gettano nell’oblio delle celle le loro identità. Una tortura, ecco cos’è il 41 bis. Una tortura. Che ha lo scopo di annullare la persona. Ma non sono riusciti a cancellare i nostri compagni Alfredo e Juan, e la nostra compagna Anna! La loro lotta risuona e rimane nelle loro azioni e in noi che stiamo al di là delle sbarre. La loro lotta contro il sistema è diventata la lotta contro l’atrocità del carcere e le misure detentive. Non solo per i compagni e compagne anarchiche, ma per tutte le individualità che subiscono la reclusione. Le galere sono l’arma del boia che è questa società e infonde paura. La paura è il manganello che fa più male. La paura di finire in gabbia, chiude le bocche e spacca le teste. La paura di non vedere più il cielo nella sua immensità fa raddrizzare lo storto. E se ciò non avviene ecco che il sistema ti vomita in faccia l’esempio negativo del balordo o balorda del quartiere, delle periferie che ha preso la strada sbagliata e che ha la punizione che si merita. Quella strada sbagliata, quei ghetti li ha creati lo stesso sistema che invece protegge i grandi centri in cui l’economia invece si muove in banche, carte e conti finanziari al posto delle buste di plastica, bilancini e doppi pavimenti delle periferie e province.
Ricoverano in modo disumano le persone che soffrono. Il ricovero coatto, il tso è la pratica che forse lede più di tutto la libertà di scelta di una persona. Viene imposta una cura violenta, sbattendo nello stigma in modo brutale e permanente la persona che lo subisce e che sta vivendo una sofferenza. Non è un momento, il tso te lo porti tutta la vita. Una pratica inaccettabile. Lo schizzato non è capace di intendere e di volere e per gestirlo è giusto attuare una misura violenta e obbligatoria. Questa è la giustificazione. Declassando una persona a un oggetto dannoso, una persona diventa una bomba che va spenta e distrutta. Con lacci, lettini, punture, infermieri e sbirri. Ma dopo che l’hanno spenta, l’obiettivo è che mai più si riaccenderà. Inaccettabile. La coercizione detentiva del tso è ciò che più rappresenta l’incapacità del potere di prendersi cura del disagio creato dallo stesso. E allora ecco l’ennesimo strumento repressivo. Perchè quando emerge l’anomalia, si deve rinchiudere, obbligare a guarirla, se si ha fortuna reinserire il soggetto nella produttività, se no emarginarlo, mettergli un marchio e annichilirlo.
Mostri, quando li guardo mi sembrano mostri. Quelli lì, col caschetto lo scudo e la divisa, quelli lì seduti in poltrone, in giacca e cravatta… e io di mostri nella mia testa ne ho visti parecchi, ma quelli lì, quei mostri, vi assicuro che fanno molta più paura.
Noi non siamo mostri! urliamo contro la loro mostruosità, contro la loro repressione, urliamo insieme per non avere più paura.
Contro i loro abiti cuciti con tessuto di odio,di violenza, di galere, di sgomberi, di emarginazione, di tortura.